All’interno della Manifestazione Il Molise a Roma la degustazione che ha permesso di mettere a confronto diverse espressioni di Tintilia per conoscerla meglio e rivelarne le qualità. Quasi ignorato per lungo tempo, il Molise da qualche decennio rivendica il suo valore. Originariamente era stato associato all’Abruzzo come una sorta di appendice, fino alla divisione sancita nel 1963. Da allora lentamente la coscienza identitaria si è messa in moto, portando i Molisani all’orgogliosa valorizzazione delle proprie risorse. Di pari passo è cresciuto il numero degli affezionati a questa regione, che ora organizzano le loro visite affiancando ai bellissimi borghi e alle fortezze medievali, veri e propri tour enogastronomici a caccia di eccellenze. Per un giorno la manifestazione Il Molise a Roma ha riunito il meglio di queste produzioni, vini compresi. E’ stata l’occasione per approfondire la conoscenza con la Tintilia, unico autoctono regionale, cosa che non capita tutti i giorni. Le prime tracce di viticultura in Molise si riferiscono ai tempi dei Romani e dei Sanniti. Anche Plinio ne parla nei suoi scritti, descrivendo i suoi vini già come piacevoli. La tradizione enoica si perde poi tra le vicissitudini della storia, travolta dalle guerre e dalle orde barbariche che attraversarono la penisola Italica fino al medioevo. E’ il fenomeno del feudalesimo a risvegliare la viticultura grazie ai vigneti cittadini. Una sorta di orti urbani, coltivati al riparo delle mura e protetti dalle aggressione esterne. Tipo quello che oggi si trova nell’istituto agrario di Campobasso, in cui la Tintilia viene studiata per svilupparne le potenzialità. Sul finire del 1700, l’allora Re di Napoli Gioacchino Murat, commissionò a Raffaele Pepe uno studio per valorizzare il vitigno. I risultati evidenziarono problemi nelle tecniche di vinificazione e nella sanità delle uve, che ne frenavano la produzione. Gli stessi individuati fino agli ultimi anni del 1800 anche dalla locale Cooperativa di Ferrazzano. Una antesignana delle moderne Doc che imponendo disciplinari di produzione, si occupò di fare cultura della vinificazione con ottimi risultati. Per lungo tempo si è creduto che la Tintilia fosse stata importata in epoca Borbonica dalla Spagna. Ipotesi sostenuta anche dalla tradizione orale. La leggenda parla infatti del Conte Carafa e del suo matrimonio con la figlia di un gendarme borbonico spagnolo. La dote erano proprio le barbatelle del vitigno. Poco tempo dopo secondo il racconto, la sposa morì giovanissima trascinando il Conte in un dolore inconsolabile. Da qui la decisione di farsi portare dalla Spagna le barbatelle di questo vitigno per impiantare nel suo podere di Ferrazzano le prime vigne di Tintilia. Bella storia ma che la scienza ufficiale ha relegato al ruolo di leggenda, affermando la Tintilia come autentico autoctono Molisano. Indissolubilmente legato alla regione, questo vitigno riesce a interpretare le sfumature dei singoli territori produttivi. Il nome deriva da Tinto cioè rosso in lingua iberica, oppure da Tenta dal dialetto molisano. Termine che significa Tinge, vista la sua capacità di macchiare in maniera quasi indelebile. Vitigno rustico, resistente alle intemperanze del clima in una regione dal carattere prevalentemente montuoso – collinare. Ha caratteristiche di grande acidità quindi idoneo per l’invecchiamento almeno sui 10 anni, possibilità su cui i produttori sono orientati. I sistemi di allevamento sono diversi, la Spalliera e quello prevalente ma sono presenti anche vigne ad alberello. Acini piccoli e resa bassissima tanto che i contadini, per lungo tempo orientati verso la quantità, lo consideravano poco interessante. Lo utilizzavano solo come uva da taglio direttamente in vigna, piantandone solo alcuni filari tra quelli di altri vitigni. La Tintilia è prodotta prevalentemente in acciaio, perché il legno viste le caratteristiche del vitigno rischia di prevaricarne le qualità. Tuttavia nei pochi casi in cui viene utilizzato aggiunge al vino note interessanti, segno che su questa strada anche se con cautela si può lavorare. Vini quindi, che puntano all’eleganza più che alla potenza e le quattrodici espressioni presenti nella degustazione del mattino lo hanno confermato. Tutti dal colore impenetrabile, dai marcatori che con le opportune sfumature territoriali presentano piccoli frutti rossi di bosco e più raramente note floreali. Spezie ed erbe su un’ampia gamma ma con il pepe in prevalenza, la liquerizia anche come radice e i chiodi di garofano. Nei bouquet più evoluti anche cacao e note di tostatura. Tra 13 e 14 gradi il tenore alcolico, con tannino presente ma raramente invasivo e in bocca tutti di grande acidità e buona persistenza. Tra tutte le bottiglie presenti sicuramente degne di nota le Tintilia Dop di Cianfagna con la Sator 2012, Macchiarossa 2012 di Claudio Cipressi, Rutilia 2014 di Pasquale Salvatore, Catabbo 2013 e Opalia 2014 di Valerio Campi. Tutti i vini presenti però, hanno mostrato come elemento distintivo una filosofia produttiva volta al rifiuto dell’omologazione e al rispetto del territorio. Caratteristica che nel panorama generale della viticultura italiana è oggi sicuramente il fattore più interessante che ogni appassionato ricerca.