GIORNO DEL RICORDO

IL PROMOTORE DELLA LEGGE D’ISTITUZIONE, ON. ROBERTO MENIA:

«NULLA PUÒ DIRSI CHIUSO SE NON È CHIUSO CON GIUSTIZIA!»

 

Servizio e foto di Claudio Beccalossi

L'on. Roberto Menia

 

L'ntervento d'apertura di Massimo Mariotti

Verona – Con la sua scrittura tra storia e cronaca, ha rigirato il coltello nella piaga (che qualche irriducibile malato d’ottusità revisionista vorrebbe ridimensionare se non, addirittura, giustificare o smentire) delle tragiche e dolorose vicende che coinvolsero le incolpevoli popolazioni italiane d’Istria, Fiume e Dalmazia alla mercé di dissennate vendette e persecuzioni, più tribali che nazionaliste, delle formazioni partigiane titine. L’on. Roberto Menia (Pieve di Cadore, Belluno, 3 dicembre 1961), primo promotore (ergo, genitore) della legge 30 marzo 2004, n. 92 che ha istituito il 10 febbraio quale Giorno del ricordo di quanto d’efferato avvenne ai danni di connazionali in terre orientali d’Italia poi perdute, ha parlato a braccio, nella sala riunioni del Liston 12 in piazza Bra, sulla scia della nuova edizione, riveduta ed ampliata, del suo libro “10 febbraio. Dalle foibe all’esodo” (Editore Pagine, Collana “I libri del Borghese”, prima pubblicazione, 2020).

Prima di lui sono intervenuti, sottolineando l’importanza del 10 febbraio e presentando l’autore, Massimo Giorgetti, vice coordinatore regionale del Veneto di Fratelli d’Italia e Massimo Mariotti, delegato per il Veneto del Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo. «Organismo – ha precisato lo stesso Mariotti – nato decenni fa (nel 1968, n.d.a.) e sviluppato poi da Mirko Tremaglia (Bergamo, 17 novembre 1926 – Bergamo, 30 dicembre 1911, unico ministro per gli Italiani nel mondo, n.d.a.) che ne è stato segretario generale realizzando tante opportunità per gli italiani all’estero».

 

SULLA SCIA DELL’ON. MIRKO TREMAGLIA

 

«Vedo qui vari rappresentanti che, nel passato, hanno conosciuto e collaborato con Tremaglia. Insieme abbiamo fatto tante manifestazioni. C’è un mondo variegato che è partito dall’Italia, è andato all’estero, in alcuni casi è rientrato ed oggi viene copiato, in un certo senso, da un’emigrazione nuova che è quella di giovani risorse della nostra nazione che stanno andando via consumando opportunità che, invece, avrebbe dovuto dar loro l’Italia. Il Comitato Tricolore è nato proprio per mantenere un legame culturale e, poi, anche politico, perché è noto che il Comitato è un’organizzazione non partitica ma che fa riferimento ad una parte italiana. Era il referente del Movimento sociale e delle sue varie sezioni all’estero, però le normative degli Stati spesso impedivano di poter costituire una sezione che facesse propaganda. Quindi, il Comitato Tricolore, come associazione culturale, ha superato questo ostacolo ed ha dato la possibilità ai nostri emigrati di riunirsi e di trovarsi. Il Comitato, inoltre, s’organizza in caso di elezioni degli organi di rappresentanza presso le circoscrizioni consolari, presenta i propri candidati e liste un po’ in tutto il mondo. Abbiamo portato a casa buoni risultati, soprattutto in alcune nazioni dove non eravamo presenti. Ci sono alcune lacune da colmare per il prossimo futuro e c’è stato anche un cambio generazionale».

 

PERCHÈ IL 10 FEBBRAIO?

 

L’on. Roberto Menia (deputato in cinque legislature e dal 2 marzo 2012 segretario generale del Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo) ha preso la parola sottolineando «la fortuna di nascere italiano e d’essere italiano da questa parte del confine. Mio nonno era un volontario irredentista della Grande Guerra e mia nonna proveniva dall’isola di Curzola (l’odierna Korčula, nella Dalmazia meridionale croata, n.d.a.). La sua famiglia fece il primo esodo dei dalmati quando era nato il primo regno dei Serbi, Croati e Sloveni, poi sono venuti in Istria e quindi hanno fatto un altro esodo, a Trieste si sono fermati e penso che basti. Mi rendo conto che l’argomento è difficile magari quando passa il tempo, ma sono anche convinto che sia un fatto sul quale chi tiene ad un’Italia in cui credi non può lasciar perdere, non può lasciare nel dimenticatoio della storia».

«Perché il 10 febbraio? Il 10 febbraio è la data in cui, nel 1947, fu firmato il trattato di pace al termine del secondo conflitto mondiale (il noto Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, n.d.a.). Noi l’abbiamo sempre chiamato diktat perché, più che un trattato, era una dettatura all’Italia stessa, un’Italia che andava a rappresentarsi, un’Italia che, nella storiografia resistenziale che ci hanno insegnato nelle scuole, era teoricamente vittoriosa. Ci dissero che avevamo vinto la guerra con gli alleati, eppure fummo puniti uccidendo, troncando duemila anni di storia».

«Quando accusano noi in Parlamento “Voi non fate niente!” almeno questo, di buono, lo posso dire (l’aver ottenuto la legge d’istituzione del Giorno del Ricordo, n.d.a). – ha rimarcato con orgoglio l’on. Menia – Era diventato una specie di voto al quale io stesso ho adempiuto, di fronte ai miei ricordi da bambino. Quelle poche volte che s’andava oltre confine, quando c’era la cortina di ferro e dal confine di Trieste c’era la Jugoslavia dall’altra parte, rammento che si passava oltre questi doganieri con la stella rossa, ci recavamo sotto la casa che fu di mia mamma (originaria di Buie, in Istria, n.d.a): “Ecco, vedi, quella finestra lassù è dove sono nata, dove c’è quell’abbaino c’era tuo nonno che aveva fatto la casetta delle bambole”. Una volta aveva provato ad entrare ed era stata cacciata da non so quale ex partigiano che s’era appropriato di casa loro. Comunque, ricordavo senza percepire, senza capire perché ero un bambino. Ed anche perché a casa tendevano a non parlare di queste cose, lo sanno bene tutti quelli che sono figli di esuli, a casa non te ne volevano parlare per non farti soffrire. Eppure qualcosa passava. Il rapporto con la tua terra è qualcosa di strano, quella terra non l’ho quasi mai calcata eppure ho un’affezione per la terra d’Istria che mi fa star male appena vado oltre».

 

DRAMMATICI PUNTI SALIENTI

 

A getto, l’on. Roberto Menia ha sintetizzato varie stazioni della Via Crucis nell’estremo est: gli infoibamenti di italiani dopo l’8 settembre 1943 ed a guerra finita; il martirio della ventitreenne Norma Cossetto, nell’ottobre 1943, per mano di belve partigiane jugoslave; l’entrata a Trieste delle formazioni titine il 1° maggio 1945; la strage di Vergarolla dell’8 agosto 1946; l’esodo di giuliani e dalmati (un numero stimato tra i 250mila ed i 350mila) verso l’Italia ed altri Paesi; la famigerata Isola Calva (Goli Otok) ed il suo campo di concentramento dove finirono molti monfalconesi dopo la rottura tra Stalin e Tito nel 1948…

«I monfalconesi andarono a Fiume dove c’erano i cantieri (navali, n.d.a.) ribattezzati “3 maggio” perché Fiume era stata occupata il 3 maggio 1945. Fiume sta in basso rispetto a Trieste e qualcuno dovrebbe spiegare perché i partigiani siano arrivati a Trieste il 1° maggio ed a Fiume solo il 3 maggio. O perché liberarono Lubiana e Zagabria, le loro capitali, dai tedeschi il 4 ed il 9 maggio. L’intento era quello di fare la corsa su Trieste per spingersi il più possibile in profondità. C’era un chiaro disegno di Tito, quello d’arrivare il più avanti con la truculenta mentalità comunista d’uccidere tutto quello che si poteva e di far scappare».

«Questi monfalconesi, cantando “Bandiera rossa” – ha rievocato l’on. Menia – partirono felici per costruire il socialismo nella nuova Jugoslavia di Tito. Nei cantieri a Pola e, soprattutto, a Fiume vennero trattati benissimo, ospitati negli hotel requisiti. Ad Abbazia, chiamata la “perla del Quarnaro” ed a Fiume, porto dell’Ungheria, avevano costruito degli hotel magnifici, erano le prime stazioni balneari fatte ancora all’epoca austriaca, hotel che furono tutti occupati dai monfalconesi. La manodopera jugoslava non fu molto contenta del favoritismo, d’altra parte erano gli unici che sapevano lavorare. Ci sono testimonianze, tra cui quella di Abdon Pamich (Fiume, 3 ottobre 1933, primatista mondiale nel 1961 di marcia su pista nella 50 km, campione olimpico, europeo ed italiano). Questo libro racconta la sua storia, lui col suo fratellino partirono e dissero alla mamma “Non possiamo stare con questi”. Erano arrivati a Fiume nel 1945 e ne andarono nel ’46. “Quando cominciò l’anno scolastico vedemmo gente con le opànka (termine serbocroato che identifica la calzatura rustica tipica dei contadini jugoslavi, simile alla ciocia, n.d.a.), un tipo di scarpe che hanno loro. Le vasche da bagno, che questi non conoscevano, vennero tolte, messe alla finestra e riempite di terra per piantarci fiori. Cambiava il mondo e non si poteva più viverci, ci volevano mandare a scuola a farci imparare il croato”. Scapparono da bambini, ha raccontato la loro fuga in treno, sbagliarono strada, poi ritornarono indietro, non si poteva varcare il confine, allora s’appiccicarono a due signori e questi capirono che volevano fuggire. Fecero finta che fossero loro figli e riuscirono a passare ed a arrivare all’estero da esuli».

 

GLI ITALIANI RICONQUISTINO UN PO’ DI MEMORIA STORICA

 

«Nulla può dirsi chiuso se non è chiuso con giustizia. – ha ammonito il promotore legislativo del Giorno del Ricordo – M’auguro, magari sia così. Quand’ero ragazzo, ovviamente, speravo che nascesse un nuovo D’Annunzio, m’immaginavo di partire con non so quale camicia da volontario e riconquistare le terre di mia madre. Però, da più vecchio che sono, posso sperare che gli italiani riconquistino un po’ di memoria storica, un po’ di sentimento di giustizia. Provino a pensare a ritornare almeno come influenza culturale, ma non solo quella».