Forse il fantasma del Duce vaga irrequieto tra familiari stanzoni e camerate, adirato

per tanto squallore – I “ricordini” d’inciviltà lasciati nei pressi della pericolante facciata

da tossicodipendenti ed inquinatori –Il… “festival del degrado” d’un complesso dal nucleo

secentesco passato tra Repubblica Veneta, Impero Asburgico, Regno d’Italia e Repubblica italiana

 

 

 

 

 

 

Verona – Forse, in quegli spazi dal lungo trascorso militare ed in miserevole abbandono odierno, gironzola inquieto il fantasma di Benito Mussolini (anzi, Benito Amilcare Andrea Mussolini, Dovìa di Predappio, Forlì-Cesena, 29 luglio 1883Giulino di Mezzegra, Como, 28 aprile 1945), in cerca di scampoli di giovinezza perduta, quando, il 30 dicembre 1904, venne assegnato per la leva al 10° Reggimento bersaglieri di Verona, di stanza dapprima a Castelvecchio e poi proprio lì, nell’allora Caserma erariale “Catena” poi chiamata Caserma “Alberto Riva di Villasanta”, con ingresso dall’angusta via Torretta che s’incunea e collega le vie Tomaso da Vico e Porta Catena, nello storico rione di San Zeno.

Mussolini dovette poco tempo dopo usufruire d’una licenza per rivedere la madre morente (Rosa Maltoni, San Martino in Strada, Forlì-Cesena, 22 aprile 1858 –Predappio, Forlì-Cesena, 19 febbraio 1905). Rievocò in seguito: “Una mattina il capitano Simonotti Achille della mia compagnia, mi chiama e dice: «È giunto per voi un telegramma urgente». Glielo strappo di mano e leggo: «Mamma aggravatissima. Vieni»”. E lui, il 17 febbraio 1905, raggiunse in tutta fretta Predappio riuscendo a stare accanto alla madre nei suoi ultimi momenti.

Si congedò il 4 settembre 1906 e, del periodo da bersagliere a Verona, conservò lucida nostalgia. Come nel 1924, quando, in visita ad una caserma romana dei bersaglieri, ricordò: “Tutte le volte che mi accade di incontrare un reparto di bersaglieri e sento squillare le trombe che suonano la nostra caratteristica marcia, nel mio animo si alternano i sentimenti di melanconia e di orgoglio. Melanconia, perché ricordo i miei vent’anni, di cui due trascorsi a Verona tra le caserme Castelvecchio e Catena; e ricordo le bellissime corse, al mattino lungo le rive dell’Adige, corse che allargavano i polmoni e fortificavano i garretti”.

Fatiscente e pericolante nella facciata esterna visibile, cinta da una parziale rete metallica di protezione intervallata da cartelli ammonitori (“Attenzione. Pericolo caduta cornicioni, intonaci, coppi… Mantenersi a distanza di sicurezza dal perimetro del fabbricato”), l’ingresso della struttura che vide aggirarsi il Duce deve sopportare quanto lasciano tossicodipendenti ed inquinatori che bazzicano nei suoi immediati paraggi: flaconcini vuoti di metadone e siringhe usate, bottiglie ed immondizie in putrefazione.

Il costante rischio d’un cedimento delle mura alquanto insicure ed il persistere, come una spada di Damocle sui passanti, di tegole in bilico s’aggiungono al distacco già avvenuto e verificabile soprattutto alla base della parte terminale d’angolo che guarda via Porta Catena alla sua sinistra, sprovvista (chissà perché) d’una logica continuazione della rete di recinzione protettiva. Calcinacci vari, infatti, testimoniano recenti distacchi ed allarmano per la minaccia incombente di altri che potrebbero far danni a persone e cose (l’area prospiciente il fabbricato viene utilizzata come parcheggio). Per questo, oltre ad attivare le opportune azioni di bonifica dall’inciviltà di tossicodipendenti ed inquinatori, sarebbe pressantemente opportuno provvedere all’allungamento della recinzione di sicurezza ora inspiegabilmente tronca e, nel tratto scoperto, priva perfino di utili avvisi di pericolo.

Passata parzialmente dal Demanio alla Regione Veneto tra il 2014 ed il 2015 (con la firma dell’atto di permuta tra Stato e Regione, primo passo del Protocollo d’intesa per la razionalizzazione di immobili pubblici a Verona, Treviso, Padova e Bassano del Grappa, tra Agenzia del Demanio, Regione, Guardia di Finanza e ministero dell’Interno) per attività connesse all’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata, l’ex Caserma “Alberto Riva di Villasanta” (ed ancor prima ex Caserma erariale “Catena”), palese decadenza a parte, “racconta” trascorsi ben più illustri.

La sua cronologia inizia con la costruzione dell’ala nord della caserma tra il 1644 ed il 1645 (per volere della Repubblica Veneta; marchese Spinetta Malaspina, provveditore/progettista sconosciuto ed appalto a Matteo Pecci tagliapietre, probabile architetto) e prosegue con l’ampliamento delle ali est ed ovest tra la seconda metà del XVII secolo e la prima metà del XVIII (sempre sotto la Repubblica Veneta, con progettista non noto); con la sopraelevazione d’un piano ed il presumibile innesto dell’ala sud nel 1761 (Repubblica Veneta, architetto Adriano Cristofali ed ingegnere Antonio Pasetti); con la ristrutturazione del pregresso e l’inserimento dell’ala nuova a nord, tra il 1838 ed il 1840 (per l’Impero Asburgico, con comandante d’Armata il feldmaresciallo Josef Radetzky e direttore dei lavori di fortificazione a Verona il maggiore Johann von Hlavaty).

La caserma eretta al tempo della Repubblica Veneta poggiava su una pianta quadrata ed era costituita da due corpi primari sistemati sui lati lunghi della corte rettangolare, uniti da due corpi secondari minori. Due corti recintate erano congiunte all’esterno degli apparati laterali. La compiuta razionalità dell’insie-me costituiva un notevole esempio d’architettura militare settecentesca. I progettisti asburgici rivoluzionarono l’assetto per consentire l’acquartieramento di 975 soldati di fanteria in camerate comuni e di 6 ufficiali in alloggi personali. La nuova ala a nord venne inserita sull’asse del loggiato orientale. L’edifi-cio è a tre piani, con dieci moduli dalla struttura a volta sui primi due ed il solaio ligneo al terzo.

L’ampliamento veneto del 1761, rammentato da una lapide collocata nel cortile, permise l’innalza-mento del piano già riferito e, forse, la parziale chiusura del fronte sud con due semiali, dotate di scale, distaccate al centro per consentire l’ingresso. Allora, l’organico totale arrivò a 1.500 uomini. Dal 1847 al 1859, in attesa dell’edificazione del nuovo Ospedale di Guarnigione di Santo Spirito, la caserma trovò utilizzo quale ospedale militare, con capienza per 292 persone.

Recuperate le funzioni ordinarie, nell’ambito del Regno d’Italia la Caserma “Catena”, ampliata ancora, fu sede fino alla Seconda guerra mondiale dei bersaglieri, assumendo la denominazione di Caserma “Alberto Riva di Villasanta”. Ed infine, dotata di vari capannoni, l’annesso compendio diventò officina per la riparazione degli automezzi militari.

Le competenze demaniali della caserma, assieme al vasto spazio chiuso ad est ed a nord dalla cinta magistrale e, ad ovest, da via Tomaso (o Tommaso) da Vico, comprendevano anche il Bastione di Spagna e la Polveriera asburgica. Tutto, in ogni caso, in deprecabile e preoccupante stato di conservazione, soprattutto per scadenti (se non mancanti) programmi manutentivi, indifferenza ad un bene storico (“in viaggio” tra Repubblica Veneta, Impero Asburgico, Regno d’Italia e Repubblica italiana) e distratta valutazione di altri fattori negativi (siringhe e rifiuti dispersi) a cui porre rimedio, semplicemente rimboccandosi le maniche per onere istituzionale…