Pelé, Garrincha, Didi, Vavá, Gilmar, Nilton Santos, Djalma Santos, Zito, Belini, Orlando e Zagalo, incantano il mondo del calcio e il Brasile vince il primo titolo mondiale dopo aver superato, nei turni, Austria, Inghilterra, URSS, Galles, Francia e Svezia.

Sei partite, 16 gol messi a segno e solo quattro subiti. Con questa impressionante progressione la nazionale brasiliana nei campionati del mondo di calcio del 1958, realizzati in Svezia, conquista la prima delle cinque coppe, di cui attualmente si fregia.

Nei 60 anni che ci dividono da quell´epoca, il Brasile conquista altri quattro primati – ricordiamo, per un attimo, i campionati del 1982 con protagonisti memorabili: Júnior, Cerezo, Sócrates, Zico e Falcão - posizionandosi al top dei Paesi detentori di coppe del mondo (Brasile 5, Germania e Italia 4, Argentina e Uruguay 2, Francia, Inghilterra e Spagna 1).

Nel decorso degli anni, il Brasile dimostra di essere il vivaio mondiale di calciatori fuoriclasse, che cominciano a destare l’attenzione e l’interesse dei club del Vecchio Continente e non solo.

Conseguentemente, il talento calcistico comincia a diventare una forma d´nvestimento sicuro e redditizio per atleti che, dalle umili origini, capiscono di potersi proiettare nel mondo dei privilegiati, in virtù dei favolosi ingaggi offerti dai ricchi club europei.

A questo punto, il calciatore all’antica, animato da pura passione per lo sport e compensato con modesti stipendi, scompare e nasce il calciatore moderno, brand del milionario business che attorno a lui ruota.

La globalizzazione fa il resto; l’atleta si pone sul mercato calcistico mondiale a disposizione del miglior ingaggio (oramai nababbesco) e delle migliori condizioni di vita.

Disciplina e amore patrio non sono più la fede dell’atleta moderno e si chiude, così, anche l’epoca in cui si credeva che il “pallone” fosse brasiliano. Esso si è democratizzato nel resto del mondo; basta notare il miscuglio di razze che, oramai, predomina nelle varie squadre. Belgio e Francia ne sono un esempio lampante.

Il cambio di casacche dei calciatori, da molti definiti “i mercenari del calcio”, non meraviglia più il tifoso; il mondo è cambiato, oramai se ne vedono di tutti i colori.

Basta pensare a quei calciatori che baciano lo scudetto della maglia, ogni qualvolta che arrivano in un nuovo club, per capire come sia facile passare da un amore all’altro, quando c’è di mezzo una montagna di “verdoni”.

Quest’anno, la nazionale brasiliana arriva in Russia tanto adulata e osannata da far credere a tutti i suoi sportivissimi sostenitori che non avrebbe trovato ostacoli nella corsa al sesto titolo mondiale. Il pareggio con la Svizzera avrebbe dovuto, però, servire come campanello d’allarme, ma non ci si è fatto caso. Tanto, la squadra è zeppa di campioni - si sarà pensato – e andrà in finale con facilità.

Non è stato così! Il Brasile piange ancora una volta, dopo il 7-1 con la Germania nel 2014 e Neymar torna a casa come Messi e CR7. Il gioco del calcio è bello perché è imprevedibile e l’imprevedibilità sovverte tutte le logiche del gioco.

Un boccone amaro per mister Tite, che dovrá ricominciare tutto daccapo per capire se la nazionale brasiliana ha le risorse necessarie, così com’è, per riemergere velocemente da questa disfatta e, magari, recitare anche un "mea culpa" per come sono andate le cose. Per concludere, se è vero che nel calcio si vince insieme e si perde insieme, il grande perditore, ancora una volta, è il popolo brasiliano che del calcio fa una fede e, oggi, si sente tradito.