Tratta dal dramma Il paggio di Leicester (1813) di Carlo Federici (1778-1849) che riprende The Recess, un romanzo gotico inglese di Sophia Lee (1785), l’opera -musicata su libretto del livornese Giovanni Schmidt - segna l'inizio della collaborazione artistica tra il compositore Gioachino Rossini e la spagnola Isabella Colbran, primadonna del ‘San Carlo’ di Napoli e sua futura prima moglie.

Sto parlando di ‘Elisabetta regina d’Inghilterra’, la cui trama ruota intorno all' amore infelice della regina per il conte di Leicester, sposato in segreto con Matilde, figlia della decapitata Maria Stuarda. Il tutto è complicato dalle trame dell'invidioso Norfolc : la sovrana deciderà alla fine di rinunciare all'amore per dedicarsi ai doveri reali.

A partire da Elisabetta (6a opera seria e 15a del compositore), Napoli diventerà la città in cui Rossini proporrà le sue opere più innovative e sperimentali: Otello, Armida, Mosè in Egitto, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago, Maometto II e Zelmira.

Chiamato nella città partenopea dall’impresario Domenico Barbaja, per diversi numeri della partitura Gioachino riutilizzò brani già scritti per lavori precedenti, secondo un procedimento che va dall’auto-imprestito globale (operazione legittima presso tutti gli operisti prima, durante e dopo l’epoca rossiniana) alla reminiscenza di spunti e tracce da sviluppare e inserire in un nuovo contesto.

Elisabetta si apre sulla sinfonia dell’Aureliano in Palmira (1813) che verrà trasposta all’inizio del Barbiere di Siviglia, l’anno successivo (1816).

Al suo ingresso Elisabetta canta una cabaletta che il pubblico milanese aveva ascoltato nell’Aureliano ma che qui viene rielaborata : con successive modifiche passerà anch’essa nel Barbiere e diventerà ‘Ma se mi toccano’ nella sortita di Rosina.

D’altronde è noto: messo alle strette e sotto stress, Gioachino guadagnava tempo ‘riscaldando gli avanzi’ come era solito dire : durante la sua carriera copiò altresì l’ouverture de ‘La cambiale di matrimonio’ nell’’Adelaide di Borgogna’, quella de ‘La gazzetta’ ne ‘La Cenerentola’; sottrasse alcune note al ‘Turco in Italia’ per guarnire l’’Otello’ fino a che- essendo diventato famoso e le sue opere conosciute e cantate- gli fu impossibile continuare su questa strada. L’aspetto più curioso è che trascrisse l’ouverture de ‘La pietra del Paragone’, opera buffa, nel ‘Tancredi’, opera seria.

All’editore Ricordi che pubblicò nel 1864 un consuntivo di tutte le sue opere, scrisse nel dicembre dello stesso anno: ‘L’edizione da voi intrapresa darà luogo (con fondamento) a molte critiche, poiché si troveranno in diverse opere gli stessi pezzi di musica. Il tempo e il denaro che mi si accordava per comporre era sì omeopatico, che appena avevo io il tempo di leggere la così detta poesia da musicare. La sola sussistenza dei miei dilettissimi genitori e poveri parenti mi stava a cuore’.

‘Elisabetta’ -andata in scena il 4 ottobre 1815 - fu un così grande successo che rimase in repertorio a Napoli per quasi 20 anni.

In scena alla Vitrifrigo Arena l’11 agosto (repliche 14, 17 e 21), l’opera - messa in scena da Davide Livermore - è stata diretta dal ‘debuttante’ Evelino Pidò alla guida dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e del Coro del Teatro ‘Ventidio Basso’ di Ascoli Piceno (abilmente curato dal M° Giovanni Farina).

Vulcanico e travolgente come sempre, Livermore presenta uno spettacolo ricco e fastoso che indubbiamente affascina gli spettatori. Approfittando del fatto che la storia narrata da Rossini è solo vagamente ispirata a vicende storiche realmente accadute a Elisabetta I Tudor , il regista ambienta l’opera ai tempi di Elisabetta II Windsor.

Il periodo preciso non è identificabile (probabilmente l’inizio degli Anni Cinquanta) ma sono presenti tutti gli elementi iconografici della vita dell’attuale sovrana: sembra, talvolta, di vedere scene tratte dalla serie TV The Crown, dal film The Queen, dalla fiction Downton Abbey.

Premesso tutto questo (realizzato attraverso le raffinate scene di Giò Forma, gli stupendi costumi di Gianluca Falaschi, le suggestive luci di Nicolas Bovey e il videodesign di alto livello di D-Wok), forse non è stato altrettanto curato l’approfondimento psicologico della storia, capace di portare gli spettatori all’interno dei tormenti dei protagonisti.

Non sono di certo mancati gli applausi (piccola contestazione per Limermore) per Salome Jicia (Matilde), Marta Pluda (Enrico), Barry Banks (Norfolc), Valentino Buzza (Guglielmo), con picchi per Sergey Romanovsky (Leicester), e Karine Deshayes (Elisabetta), una star in Francia, quasi sconosciuta nel nostro Paese.

Paola Cecchini